L’ex Sindaco di Torino: «Un'azienda è innovativa se è permeabile, cioè se fa sue le istanze del territorio. Ma deve essere multidisciplinare, curiosa, per niente autoreferenziale» .
È un osservatore sempre attento Valentino Castellani e non solo perché è stato sindaco di Torino dal 1993 al 2001. Ex docente del Politecnico, 80 anni che non dimostra, come presidente del Comitato organizzatore delle Olimpiadi invernali del 2006 è stato impegnato a posizionare la città sulle mappe internazionali. Sì, perché l’ormai ex company-town della Fiat era sconosciuta ai più, se non forse per la Juventus. Ancora adesso – a maggior ragione dopo l’onda lunga della crisi mondiale iniziata nel 2007 e lo tsunami del Covid-19 – l’understatement diffuso che alberga nel Dna urbano non aiuta il rilancio.
Professor Castellani, secondo lei la Torino dell’economia sociale e d’impatto è una buona cosa? Può aiutare a impostare il futuro?
Io penso che possa essere una delle chiavi per ripartire. Il capitale umano, i beni relazionali, volontariato, terzo settore, sono una ricchezza formidabile. Ma è una esperienza che deve strutturarsi, prendere consapevolezza, irrobustirsi. La botta della pandemia, purtroppo, ha infierito su un contesto già sofferente e compromesso. Tutti gli indicatori economici erano già in affanno: basta sfogliare le ultime edizioni del Rapporto Rota per capire. C’è stato un rallentamento da parte di tutti. Bisogna riprendere slancio.
Sotto la Mole abitano dei saperi consolidati, tradizionali. Bisogna forse cancellarli?
No, tutt’altro. Talvolta, però, inseguire in maniera acritica la filiera dell’automotive è una specie di riflesso condizionato che ci ripiega su noi stessi. Intendiamoci: è un know-how che va coltivato, a maggior ragione pensando alle tante Pmi che hanno saputo globalizzarsi e affrancarsi da quella che una volta era la monofornitura per la Fiat. Ma non dobbiamo fermarci a questo. Dobbiamo sviluppare capacità che ci consentano di aprire nuove prospettive proprio adesso che sembriamo uscire dal tunnel del Covid. Penso all’economia dei servizi sociali, ma non solo. Arriveranno molte risorse per la transizione digitale, saremo in primo piano per l’intelligenza artificiale.
Lei è convinto che il digitale potrà salvarci?
Se pensiamo alla traiettoria che intende dare all’Europa la Commissione Von der Leyen, è sicuramente uno degli asset da associare all’economia sostenibile del Green Deal. Pensiamo ai servizi o anche solo alla sanità territoriale. Quale salto in avanti si potrebbe compiere con l’uso diffuso della telemedicina, con i pazienti monitorati a casa, al sicuro dai contagi?
D’accordo. Ma di fronte alla gravità della situazione c’è chi si sente come schiacciato. Possiamo partire dalle piccole cose? Una realtà in rete come Torino Social Impact che cosa può fare?
Dobbiamo partire dalle piccole cose e dalla innovazione sociale. Un esempio? Io sono rimasto colpito da questo dibattito un po’ surreale lanciato da architetti come Stefano Boeri sulla fuga in atto dalle città. Certo, ci sono fondamenti di verità, ma non è la città la causa di tutti i malesseri. Sono le funzioni della città a dover cambiare. C’è una sfida epocale che si apre per gli urbanisti: le città sono la soluzione, non il problema; perché in un contesto urbano hai il massimo della interazione tra le migliori innovazioni e vanno dunque sostenute.
Questa azione, però, spetta ai decisori pubblici…
Certo, ma è vero fino a un certo punto. Le imprese che hanno una “intenzionalità” nel produrre impatto sociale debbono prendersi a cuore anche la città, proponendo, stuzzicando, stimolando. Facendo. D’altronde, la città è uno snodo importantissimo anche per il territorio circostante. Il modello di una città americana come Detroit – per molti aspetti simile a Torino per via dell’industria dell’auto – è assurdo, tant’è che ci sono interi quartieri abbandonati. Non serve un reset, ma bisogna ripensare insieme il territorio in modo resiliente – perché no? con l’aiuto di un ecosistema – anche per intercettare con intelligenza grazie a progetti credibili tutte le ingenti risorse che arriveranno dalla Ue. Servono molta umiltà, molto studio e nessuna supponenza. Da parte di tutti.
Ci aiuti a capire meglio: un ecosistema di imprese innovative come può diventare buon fermento a Torino?
Aiutando a riprogettare una città policentrica, vivibile, sostenibile. Si fa l’esempio classico dell’anagrafe, perché aiuta a visualizzare con immediatezza. Io sono molto colpito dal progetto “Parigi in 15 minuti” portato avanti dal sindaco Anne Hidalgo. Le imprese possono e debbono contribuire, con idee e soluzioni di impatto affinché gli spazi siano fruibili e vivibile in modo agile e sostenibile. Ecco: tutto il contrario della fuga, bensì un’azione congiunta per creare attrazione economica e affezione civica. In buona sostanza si tratta pure di un impegno culturale.
Culturale? In che senso?
L’impresa è innovativa, a mio avviso, se si dimostra permeabile. Cioè se fa sue le istanze del territorio dove vive. Deve essere multidisciplinare, curiosa, per niente autoreferenziale.
Non c’è il rischio dell’impresa innovativa tuttologa?
No, direi che va perseguito esattamente il contrario. Il salto culturale è proprio questo: uscire dalla logica campanilistica degli orticelli. Devi essere un campione nel tuo settore, cioè bravissimo. Ma consapevole che non vali nulla se non ti inserisci in un sistema territoriale, se tu stesso non fai sistema. È un modo di essere e di collocarsi. Se Torino diventasse scuola in questo senso, sarebbe una testimonianza importante e all’altezza della sua storia. È complicato, beninteso, ma non è impossibile sui tempi lunghi. Lo ripeto, serve molta umiltà. Come sempre, noi italiani diamo il meglio nelle emergenze. E forse, adesso, ci sono le premesse per un cambio di passo da parte di tutti.
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