Mario Calderini, classe 1966, docente al Politecnico di Milano, direttore di Tiresia, è portavoce di Torino Social Impact. Con lui, all’indomani dell’assemblea dei soci della piattaforma di Tsi – che ha raggiunto quota 100 partner – ragioniamo sulle strategie e gli impegni dei prossimi mesi. E sull’impegno attivato con Tech4Good.
Professor Calderini, è una buona base la vostra “quota 100”?
«Sì, è una buona base: eterogenea, ma compatta. La nostra scommessa è stata quella d’intuire la trasformazione che avrebbe attraversato una parte delle organizzazioni del sociale presenti nell’area metropolitana torinese. E che valeva la pena essere precursori. Noi non siamo un ulteriore puntello, ma una piattaforma su cui questo mondo può sperimentare delle buone traiettorie di cambiamento».
Tech4Good nasce per questo?
«Lo abbiamo chiamato “filone d’azione” perché è una parte integrante del piano strategico di Torino Social Impact. Intende esplorare le potenzialità delle tecnologie emergenti, come la blockchain, l’IoT, l’intelligenza artificiale. Ma in termini di risposta a problemi sociali. Inoltre, punta alla sistematizzazione di big data territoriali al servizio della definizione delle politiche locali».
Lei, però, ha detto che Torino Social Impact non si occupa di Tech4Good. Ci aiuta a capire?
«Significa che il nostro interesse è l’incorporazione della tecnologia nelle imprese sociali. Quindi, non la tecnologia in sé. Intendiamo caratterizzare il nostro approccio come tech for welfare, cioè osservare le prospettive che aprono le innovazioni. In buona sostanza, noi ci domandiamo: che cosa succede quando quella particolare tecnologia incontra una impresa che intende rispondere a un bisogno sociale del territorio?».
Quindi il focus è l’adozione della tecnologia, non il suo sviluppo.
«Sì, ma con una precisazione importante. La tecnologia cambia i modelli di intervento. E gli imprenditori sociali, grazie alla tecnologia, possono creare valore economico e scalare i modelli di interventi. L’incorporazione tecnologica, in questo senso, può trasformare radicalmente il business sociale attraendo investitori importanti».
Ha utilizzato l’immagine della «palestra a cielo aperto», ma importante per tutta la business community. Perché?
«Ritengo strategico che sia le organizzazioni del terzo settore sia il profit imparino a utilizzare con maggiori capacità la tecnologia per creare valore. È il motivo per cui abbiamo attivato due progetti: uno attraverso Torino Wireless, con Fondazione Compagnia di San Paolo e Camera di commercio, l’altro con Nesta Italia. Si tratta di attività di accompagnamento alla intensità tecnologica. Si tratta anche di una via per collaborare con Università e Politecnico lavorando insieme sulla “terza missione”, cioè aiutando il mondo accademico e della ricerca a ripensare la sinergia con il territorio».
In questo senso la “palestra” potrebbe favorire azioni di advocacy?
«Io lo auspico. Nel senso che, in maniera non scontata, possiamo diventare un luogo di progettazione politica su scala metropolitana, in modalità bottom up. È questa la scala su cui l’Europa e speriamo anche l’Italia si impegnerà per una gestione intelligente delle risorse di Next Generation Ue. Ed è il motivo per cui l’Unione Europea ha un occhio di riguardo per l’esperienza di Torino Social Impact, indicata ormai come benchmark di riferimento».
Come ci stanno osservando da Bruxelles? L’impact economy viene considerata un buon motore per la ripartenza dopo la pandemia?
«Abbiamo una reputazione alta ed è merito di tutto il sistema torinese. E la proximity in social economy è uno dei 14 pilastri su cui pensano di rifondare il rilancio. Quindi, alla stessa stregua di altri settori. Tutto questo è un pungolo a includere l’imprenditorialità sociale nelle politiche industriali e le reti sociali come incubatore sociale che sa creare valore. Dobbiamo passare da un modello di incubazione top down a un modello “a gocciolamento”, cioè diffuso e capillare».
Può essere uno strumento per superare le diseguaglianze territoriali?
«Deve esserlo. Il nostro modello di “incubatore diffuso” compensa e corregge gli incubatori che hanno polarizzato le opportunità in pochi luoghi. Questo può aiutare anche i territori che sono rimasti indietro. E può essere un ottimo ingrediente per riprogettare le città dopo il Covid. C’è un grande potenziale di crescita nella inclusione: perché, pur creando valore economico, rispetta le persone».
Francesco Antonioli