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Lo scrittore lancia una proposta: «Perché le imprese della impact economy non si impegnano a organizzare incontri e dibattiti con autori e scuola sui temi oggi più decisivi?»

C’entrano gli scrittori e la cultura con Torino Social Impact? C’entrano eccome, o meglio, dovrebbero assolutamente. Parola di Fabio Geda, classe 1972, autore eclettico e curioso osservatore. Per anni si è occupato di disagio minorile come educatore nel capoluogo piemontese, dov’è nato, vive e si è laureato in Scienze della comunicazione. Collabora con quotidiani e periodici, la Scuola Holden, il Circolo dei Lettori e il Salone del libro. Il suo romanzo d’esordio è del 2007: «Per il resto del viaggio ho sparato agli indiani» (Instar Libri, 2007), che ha subito ottenuto numerosi riconoscimenti. Nel 2008, sempre per lo stesso editore, il suo «L’esatta sequenza dei gesti» vince il Grinzane Cavour e il Premio dei Lettori di Lucca. Il 2010 – con «Nel mare ci sono i coccodrilli» (Dalai Editore, 2010) – vede la sua piena affermazione: è la storia vera un bambino afghano, Enaiatollah Akbari, scappato a dieci anni dall’Afghanistan e poi approdato sotto la Mole dopo un lungo viaggio. Seguono «L’estate alla fine del secolo» (Dalai, 2011), «Anime scalze» (Einaudi, 2017) e «Una domenica» (Einaudi, 2019), mentre con Marco Magnone, per Mondadori, avvia la fortunata serie «Berlin» per bambini e ragazzi. Originale e provocatorio anche il recente «Il demonio ha paura della gente allegra e dell’educare» (Solferino, 2019).

Dunque, caro Fabio Geda: lei è spesso nelle scuole a parlare dei suoi libri e non solo. Si può fare innovazione sociale nelle aule dei nostri figli?
Certo che si può. Nelle nostre scuole ci sono professori straordinari che si inventano progetti, si formano, studiano, propongono iniziative per quelli che saranno gli adulti di domani. Però faticano, e non poco, a coinvolgere colleghi e i responsabili dello stesso istituto. Partecipo a incontri sulla carta straordinari, organizzati con entusiasmo dall’insegnante di riferimento e poi, nei fatti, più faticosi per lo scarso coinvolgimento degli altri docenti. Chi è più in alto non riesce a fare tesoro delle buone pratiche, a diffonderle, a corresponsabilizzare. Insomma, non basta un prof di lettere entusiasta per determinare la differenza…

Siamo alle solite: è il problema della classe dirigente…
Io sono stato scout e mi hanno abituato a una sana correzione fraterna. Se c’è qualcosa che non funziona, lo si dice. In bel modo, ma lo si dice. Anche ai colleghi. Talvolta, invece, nella scuola sembra che non si possa mai dire a un insegnante che non sta lavorando bene o svolgendo un buon servizio. Nell’educazione, ma in qualsiasi campo, si deve puntare al miglior risultato possibile. Diversamente, accontentarsi del piccolo cabotaggio non fa per niente bene alla nostra società.

Che possiamo fare? Più sinergie sul territorio possono bastare a creare impatto sociale?
Sarebbe sicuramente un obiettivo da perseguire. Esistono dei tentativi. Ma dei grandi soggetti. Un esempio? Per restare ancora in ambito scolastico, penso a ciò che la Fondazione Compagnia di San Paolo mette in campo con iniziative tipo “Adotta uno scrittore” o “Riconnessioni”. Insieme al Salone del libro di Torino c’è una organizzazione che funziona, che mette a disposizione strumenti e aule. Ma accade, appunto, a livello macro, importantissimo certo, ma non nel piccolo, a livello di borgo, paese, quartiere…

Allora, forse, un ecosistema come Torino Social Impact, con la sua rete, potrebbe favorire questa disseminazione.
Perché no? Non manca di sicuro l’offerta dei professionisti che potrebbero suggerire proposte culturali: alle elementari, alle medie, nei licei, ma non soltanto. E così le case editrici, sempre più disponibili a promuovere eventi con gli autori. Einaudi, con lo Struzzo a scuola, ha una persona che in tutta Italia segue questi incontri. A Torino, ancora, c’è l’associazione ToScienceCamp per la divulgazione scientifica, con laboratori e conferenze sull’uso della tecnologia. Ma ripeto, dal basso appare tutto più difficile, quasi clandestino…Servono nuovi canali. Perché le imprese che condividono l’impact economy non si buttano?

Ecco, appunto: in azienda si potrebbe fare un po’ di contaminazione tra saperi e discipline?
Come no? Partecipo a incontri da più di 12 anni e non mi è mai successo di essere invitato a parlare dei miei libri nelle fabbriche. Perché non osare? Perché non proporre degli incontri ai dipendenti e ai dirigenti a partire da racconti e romanzi? Oppure perché non portare anche le scuole nell’impresa a ragionare su temi oggi cruciali per la società civile, come inclusione, immigrazione, tecnologie, relazioni familiari? Per il Salone del libro 2020 di maggio, ora rinviato per il Coronavirus e che ha come tema “Altre forme di vita”, Giuseppe Culicchia stava lavorando per portare molti eventi del “Salone off” nelle aziende, per ragionare anche di altre forme di economia, per dire. A pochi passi da Torino si è sviluppata quell’esperienza straordinaria pensata da Adriano Olivetti. Ecco, è quella modalità che sogno e immagino per creare occasioni in cui tutti possiamo crescere nella corresponsabilità.

Il fatto che ci sia il desiderio di non perdere l’edizione 2020 del Salone del libro è un buon segnale?
Lo è. Tutta l’organizzazione vorrebbe con tutto il cuore di poterlo programmare in autunno. Ma la situazione della pandemia cambia così repentinamente che, al momento, non si può ancora sapere. In questo senso, credo che Torino sia un territorio molto particolare. Che beneficia dei frutti di lunga data: dall’intuizione originaria di Guido Accornero, che lanciò il primo Salone nel 1987, c’è stato un lungo cammino, con iniziative durante l’anno e l’impegno costante, in epoca più recente, del Circolo dei lettori e della Scuola Holden. I risultati si percepiscono. Speriamo che le librerie indipendenti resistano all’impatto del Coronavirus… In ogni caso una politica culturale ha bisogno di un lavoro silenzioso. Ma a maggior ragione adesso, serve il contributo di tutti.