Ci sono imprese che vivono l'impact economy avendola già nel Dna. Questo spazio è dedicato ad osservarle e raccontarle.
«A nostra insaputa». È una prassi molto italiana. Indica l’astuzia con cui non prendersi responsabilità e non farsi carico degli altri. Può invece trasformarsi in un sussulto, in un positivo scatto civico. Per Torino Social Impact «a nostra insaputa» è infatti un caleidoscopio attraverso cui guardare le imprese: per scorgere il buono e il bello che spesso si nasconde nei nostri territori, straordinarie pepite da far affiorare. Non è un vezzo, non è prosopopea. È un cammino di consapevolezza, per osservare come nel nostro ecosistema esistano già realtà che vivono l’impact economy. Senza saperlo. Ecco: proveremo a raccontarlo in questo spazio del sito almeno un paio di volte ogni mese.
L’economia d’impatto, lo sappiamo, è un nuovo paradigma imprenditoriale e finanziario. È un modello che intende superare il concetto di “responsabilità sociale”, spesso una foglia di fico per dire che si fa qualcosa per il territorio e per la società, magari non inquinando o con qualche iniziativa di “charity”. Al contrario, l’impact economy si propone di raggiungere in maniera intenzionale un impatto sociale misurabile insieme a sostenibilità economica e rendimenti finanziari. Agendo in settori sottocapitalizzati, penalizzati dai tradizionali meccanismi di mercato.
«A nostra insaputa» molte aziende si stanno muovendo così, anche se non l’hanno teorizzato. Eppure, è come se fosse profondamente nelle loro corde, nel Dna. Intenzionalità, misurabilità e addizionalità (l’azione nei settori sottocapitalizzati) sono i tre criteri dell’economia d’impatto. Che propone in maniera interessante un percorso di “ibridazione” tra imprese “for” e “non” profit: perché le azioni di responsabilità sociale diventino non più distinguibili da quelle del business in una azienda tradizionale e le organizzazioni del terzo settore crescano in competenze, tecnologie e capitale. Più criteri imprenditoriali, più azione sul territorio.
Inflazione, sostenibilità, multidisciplinarità
Oggi tutti parlano di sostenibilità e di ricadute sociali, forse troppo: c’è una inflazione crescente di parole che si consumano in fretta. «A nostra insaputa»? No, lo sappiamo: ecco perché bisogna saper distinguere, selezionare, misurare. È una direzione verso cui la contaminazione tra discipline diverse è importante. Arte, finanza, cultura, sociologia, letteratura: impregnarsi di altri sguardi è sempre saggio e fecondo. Anche perché Lo Stato non potrà più occuparsi di tutto, con le sue casse svuotate: il welfare, come l’economia, dovrà diventare “circolare”.
Ricordate? Italo Calvino, nel romanzo «Le città invisibili», immagina un dialogo tra Marco Polo e l’imperatore dei Tartari, Kublai Kan. Il viaggiatore visionario inventa, lavora di fantasia, incuriosisce il suo melanconico interlocutore che lo incalza. Perché vivere nelle città, luoghi di scambio non solo di merci, ma di parole, di desideri, di ricordi? Silenzi, risposte, suggestioni. Ciò che sta a cuore all’esploratore di Calvino fornisce ancora oggi degli straordinari spunti civici. Marco Polo argomenta: «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».
Quasi una spiritualità laica quella di Calvino. Ed è una indicazione: fare spazio a ciò che non è inferno, a ciò che è “impatto”, è quanto proveremo a fare qui, in modo asciutto e senza sapori dolciastri, cioè autoreferenziali e – alla fine – inutili per tutti.
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