OneDay, un nuovo modo di lavorare e fare impresa

Di Marco Sicbaldi

OneDay è un business & community builder che mette al centro le nuove generazioni: nei servizi e nei prodotti delle sue diverse società i protagonisti sono Millennial e la Generazione Z. Naturalmente noi B.Liver ci siamo trovati fin da subito in grande sintonia con questi giovani che credono in un cambiamento che parta dai giovani stessi.

Siamo al C30, il bellissimo spazio che OneDay ha aperto l’anno scorso in Viale Cassala 30, e che da qualche mese ospita anche noi del Bullone. Incontriamo Betty Pagnin, una delle colonne portanti del gruppo, che dirige oggi la divisione People & Culture del gruppo.

Betty, qual è la tua storia con OneDay?

«La mia storia con OneDay inizia prima che OneDay fosse nella storia, tredici anni fa con ScuolaZoo. Ho conosciuto il fondatore Paolo de Nadai all’università, siamo diventati amici e nel 2007 abbiamo iniziato a collaborare con un blog per studenti fatto da studenti, in un mondo ancora senza social, dove si giravano i primi video con i telefonini e si caricavano poi in piattaforma. Il mio primo lavoro è stato moderare i contenuti che potevano essere pubblicati. Successivamente, aperto l’e-commerce, mi sono occupata di gestire la relazione con il cliente. Nel 2009 ci è capitata l’opportunità di realizzare il primo viaggio di maturità, così ho iniziato a seguire la parte viaggi, fino a tre anni fa, quando Scuolazoo è diventata l’azienda che è oggi, con una rete di ambassador sul territorio, un tour operator sviluppato e un’esperienza di viaggio creata per i ragazzi. Nel 2016 abbiamo unito all’interno del gruppo OneDay tutto ciò che avevamo fatto per Scuolazoo e per le altre aziende che nel frattempo erano nate (Together, Weroad, ecc..). Da qui ho lanciato la nuova sfida che oggi si chiama People & Culture, l’evoluzione dell’HR (risorse umane), un vero e proprio sistema di comunicazione integrata tra le persone, il brand e l’azienda».

Nella foto Betty Pagnin fonte immagine: talentgarden.com

Cosa studiavate?

«Economia. Per me se non hai una forte vocazione iniziale, economia va bene come base per tutto. È stata un’esperienza importante, sia dal punto di vista formativo che per le persone che ho incontrato, amici che ho ancora oggi. Mi ha permesso anche di trovare lavoro!».

Cos’è il People & Culture?

«Il People & Culture vuole ampliare la disciplina dell’HR a vedere le persone nel contesto organizzativo, in quanto persone, con le loro problematiche e difficoltà. L’idea di considerare la persona come singolo, è la parte più People; Culture, invece, la associa a un gruppo di qualcosa. Cioè, io sono Betty, ma sono anche appassionata di tennis, e questo mi accomuna ad altri all’interno dell’azienda. E siccome siamo esseri sociali, ci piace aggregarci. Lavorare in un contesto dove sento sintonia con altre persone, è molto importante. Quindi la parte Culture fa in modo di formalizzare la personalità dell’azienda, come se fosse una persona, per “trovarsi gli amici giusti”».

E il recruiting?

«Per noi il recruiting è come un’esperienza per cui l’azienda, che naturalmente è più standard rispetto alla persona, riesce ad esprimersi più facilmente, anche grazie al nostro manifesto. Spesso ciò che cerchiamo non sono le competenze, ma qualcosa che cerca di tracciare se la persona, una volta inserita, si troverà bene oppure no. Un esempio concreto, la flessibilità: per OneDay, è molto importante. Il classico cliché dell’ingegnere fa fatica ad inserirsi da noi, perché cambiamo gli obiettivi rapidamente, è tutto molto creativo, e a volte non molto ordinato; piuttosto che il tema dell’imprenditorialità, legata al senso di responsabilità, ma anche alla capacità di innovare, vedere e distruggere le cose per migliorare l’azienda. Entrambi sono molto importanti. Chi non la pensa così dopo tre giorni impazzisce, perché risulta l’elemento distonico in un team di lavoro simbiotico».

Logo OneDay Group

Da voi in media l’età è molto giovane. È perché si propongono molto giovani, o fate una «scrematura»?

«L’età un po’ conta, in OneDay la media è di 29 anni. Se non vivi le nuove generazioni, lavorarci insieme diventa molto difficile. Un’altra ragione per cui siamo attrattivi per i giovani, sono i prodotti che abbiamo: il viaggio evento e il viaggio di Weroad stimolano le nuove generazioni. L’azienda è molto cambiata nel tempo. Tredici anni fa, quando è nata, io, Paolo e altri cinque, eravamo esattamente il target dei nostri viaggi evento. Oggi, ci sono due cluster: il primo costituito da una fascia di giovanissimi, e un altro dai senior, gli storici».

Questo spazio, il C30, come nasce?

«Abbiamo deciso di chiedere ai dipendenti qual e fosse il loro “ufficio dei sogni” e l’abbiamo creato sulla base dei loro spunti, sogni e idee».

Che approccio hanno i giovani?

«Senza limite. È l’approccio di chi guarda con ottimismo a ciò che succede domani. A prescindere dal dato anagrafico».

«Do it smart» con Satispay, si racconta Alberto Dalmasso

Il pay-off di Satispay recita: «do it smart», ossia semplificare i pagamenti per migliorare la vita delle persone. Fondazione Near Onlus ha incontrato Alberto Dalmasso, fondatore e CEO della società, per capire come è arrivato a creare quello che oggi è uno dei più importanti attori nel settore dei pagamenti online.

Come è nata la scintilla che le ha permesso di creare Satispay?

«Dalla sintonia forte con Dario Brignone e Samuele Pinta (co-founder), unito al fatto che il progetto Satispay mi sembrava sufficientemente ambizioso. Era chiaro che c’era la possibilità di cavalcare un macro-trend enorme, scrivendo un pezzo della storia della scomparsa del contante».

Avete fatto qualche analisi di mercato, o siete partiti indipendentemente dallo stato dell’arte?

«L’analisi dell’offerta di mercato è importante, ma l’analisi della domanda ancor di più. Ero stufo di non poter usare la carta di credito ovunque. Gli strumenti di pagamento esistenti allora, erano legati ad attori tradizionali e mancava quindi l’effetto WhatsApp (invitare tutti ad usarlo). È così che l’efficienza e l’accessibilità, mancati in tanti altri progetti, erano diventati conditio sine qua non per il nostro».

Come ha fatto a reclutare le prime persone? 

«All’inizio molto passaparola tra amici e conoscenti. Devi parlare della tua idea e vedere la reazione delle persone. In seguito abbiamo imparato molte cose. Sai, è meglio diventare amico di un tuo collega, che collega di un tuo amico, perché sono molte di più le sfide che affronti con un collega, rispetto a quelle che affronti con un tuo amico».

Quando ho qualche idea ho paura a parlarne, perché penso che qualcuno possa rubarmela…

«Se è un progetto così facile da rubare, mi chiedo perché qualcuno non l’abbia già sviluppato! Comunque l’idea non conta niente, è l’esecuzione che conta».

Fonte illustrazione: contocorrenteonline.it
Fonte illustrazione: contocorrenteonline.it

Quando ha capito di avercela fatta? 

«Siamo ben lontani dall’avercela fatta. Certo, mi ricordo la prima sera che abbiamo lanciato i pagamenti in store e abbiamo fatto una festa in un bar con un centinaio di ragazzi che pagavano solo con Satispay. O quando Esselunga ha attivato il nostro servizio. Oppure, quando importanti investitori hanno creduto nel nostro progetto».

Di quanto ha sbagliato le sue stime iniziali?

«Negli USA si dice che sovrastimi quello che puoi fare in cinque anni e sottostimi quello che puoi fare in dieci. Qui abbiamo sovrastimato quello che potevamo fare in sette anni, ma sottostimato quello che avremmo potuto fare in quindici anni».

Un’idea come Satispay necessita di una massa critica per partire. Come avete fatto a diffondere il servizio?

«Porta a porta. Gli utenti vedevano gli stampini degli esercenti e si creava il passaparola. Abbiamo iniziato con singole aree geografiche come Cuneo, Torino e Ravenna, in seguito Milano, Roma e così via».

Se tornasse indietro c’è qualcosa che cambierebbe di quanto avete fatto?

«Gestirei meglio i rapporti con un paio di persone. La cosa migliore è sempre essere superiori alla rabbia del momento: essere gentili e gestire le cose nel modo più umano possibile».